Ogni cosa che nasconde un padre riappare un giorno nel figlio

In una lontana uscita degli Amicinema per noi fu un colpo di fulmine quando vedemmo “C’era una volta in Anatolia“, un grande capolavoro di Nuri Bilge Ceylan.
 
Piacere bissato tre anni dopo con “Il regno d’inverno – Winter Sleep” che vinse anche il festival di Cannes di quell’anno (2014).

 

Ora il regista turco e’ tornato con “L’albero dei frutti selvatici” un nuovo bellissimo film che era in concorso (senza premi purtroppo) all’ultima edizione della kermesse francese.

 

Sinan si è appena laureato e torna a casa, nel villaggio turco di Can. Il suo sogno è pubblicare il manoscritto su cui ha lungo lavorato e che racconta il suo mondo in maniera fortemente personale. Ma poichè non è un racconto spendibile a scopo turistico nessuno sembra interessato a pubblicarlo. Inoltre il padre di Sinan, il maestro elementare Idris, ha accumulato debiti attraverso le scommesse sulle corse dei cavalli e i suoi creditori si rivolgono continuamente al figlio per ottenere una restituzione.

 

Nel cast Hazar Ergüçlü, Murat Cemcir e Ahmet Rifat Sungar.


 

Sentiamo la recensione di Ornella DallaValle che ha visto in anteprima per Amicinema questo film:
 
“Più di tre ore di film ma scorrono senza nessun tipo di noia o fatica. C’è una tale intensità e concettualità nei dialoghi che non vuoi perdere neanche una parola e ci sono quei paesaggi dell’Anatolia così belli che tengono incollati allo schermo e c’è una storia semplice e complessa che viene raccontata. È la storia di Sinan, un giovane appena laureato che sogna di diventare scrittore, e di suo padre, un insegnante con la malattia per il gioco ma capace di evocare i colori di un paesaggio o l’odore della terra.
La natura è ancora una volta protagonista nel cinema di Ceylan e questa volta si rivela fin dal titolo. L’albero e i suoi frutti, il padre e il figlio, il pero selvatico, una pianta piuttosto brutta, dai frutti aspri che cresce isolata e in terreni aridi. Un po’ come Sinan.

Sinan cerca i soldi per pubblicare il suo libro mentre partecipa ai concorsi per diventare insegnante. Vincere il concorso significa fare il maestro, probabilmente in remoti villaggi, e seguire la strada del padre (che lui considera un fallito). Pubblicare il suo libro significa esporsi al mondo, dimostrare che lui è diverso, lottare per ciò che considera giusto e in cui crede (c’è una condanna, nel film, nei confronti della religione, della politica e della polizia).
 
Sinan è pieno di speranze per il futuro, provoca, pone domande, insinua. In qualche modo si sente superiore a suo padre e si rifiuta di aiutarlo nei lavori agricoli anzi lo sopporta a malapena nelle sue fughe nella natura, e non capisce l’importanza che il padre dà allo scavo di un pozzo (vorrebbe trovare l’acqua per rendere verde un terreno di famiglia perso nelle aride colline).
Il finale ci sorprende. Una doppia morte apparente porta alla rinascita di un rapporto e alla scoperta di una identità.
In fondo, come ci dice il regista, che lo vogliamo o meno, non possiamo non ereditare alcune caratteristiche dei nostri padri e in Turchia c’è un detto: “Ogni cosa che nasconde un padre riappare un giorno nel figlio”. Bellissimo!”

 

E come sempre finiamo con il trailer ufficiale di questo film !!

 


 

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