C’era una volta in Anatolia

Questo è lo spazio dedicato a tutti i commenti, critiche e spunti di discussione che vorrete lasciare sul film “C’era una volta in Anatolia” che, immagino, sono molti e differenziati.

 

Dati Tecnici
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Con: Muhammet Uzener (dottore), Yilmaz Erdogan (procuratore), Firat Tanis (l’indiziato Kenan)
Durata: 150 min

 

Trama del film

Nel cuore delle steppe dell’Anatolia, un assassino cerca di guidare una squadra della polizia verso il luogo dove ha sepolto la sua vittima. Nel corso di questo “viaggio” emergono gli indizi di cosa è davvero accaduto.

 

Trailer

http://www.youtube.com/watch?v=Gv65kvLcl70

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  1. Silvia Carbone scrive:

    La durata del film è indiscutibilmente “rilevante”, ma a mio parere non intacca la sua grande piacevolezza ed il far rivivere la visione di luoghi, centri abitati o quasi deserti… così caratteristici, come rilevato anche da Emilio: per me, luoghi di una bellissima vacanza!
    Un bel film in tutta la sua semplicità e naturalezza, nello snocciolarsi sul lungo peregrinare delle auto con le loro scie di fuoco, lungo la lunga strada buia, polverosa e ventosa.
    Piacevoli e divertenti alcuni dialoghi ma anche, ricchi di profondità, dolcezza (ed umanità…) racchiusa specialmente, nel mitico (!) personaggio del dottore.
    La scena delle mele?!
    Che dire: una mela nuova, appena caduta dall’albero, si accosta e va a seguire inesorabile, altre mele già bacate e, trascinate dalla forza dell’acqua…

    C’era una volta in Anatolia… Direi, come mi aspettavo e speravo, che fosse!

  2. Zelmira D'Aleo scrive:

    C’è il dolore sopito delle vicende umane, che tuttavia necessitano di essere raccontate, in questo film ambientato in luoghi dai confini imprecisi, in una notte scossa da fulgori e vento.
    C’è un uso poetico della macchina da presa, come un pennello che trasforma il quadro in arte:
    la corsa della mela lungo il pendio e nelle acque del ruscello, corre e si arresta, per poi riprendere la sua discesa; il bidone di plastica bianca che rotola nel cortile sospinto dal temporale imminente;
    i passeri rannicchiati sull’angolo di un tetto, mentre il vento, ancora il vento, scuote la tenda sbiadita di un locale.
    Solo il comandante si ostina a non capire: non è importante il luogo esatto, non è importante sapere con assoluta precisione dove sia stato rinvenuto il cadavere. Perché ognuno dei personaggi porta un cadavere dentro di sé: un figlio ammalato e una situazione familiare dolorosa da cui fuggire, gettandosi nel lavoro; un matrimonio fallito, di cui restano solo foto in bianco e nero; il suicidio di una moglie bellissima e amata, di cui forse non è stata compresa in tempo la tristezza. Un assassino, che forse non ha commesso il delitto, ma che si assume una colpa non sua.
    Tutto ciò il medico lo ha compreso con ferma lucidità, ed è per questo che, al suggerimento di andare via da quella provincia abbandonata e desolata, risponde all’interlocutore che non saprebbe dove andare.
    Dove andare? Dove è possibile tenere lontani i propri fantasmi?
    Forse un riscatto è possibile: nell’oscurità assoluta, seguire la luce tenue di una lampada, che illumini e lasci intravedere la bellezza.

  3. Daniela Lazzara scrive:

    La vicenda che il regista articola nella steppa anatolica in gran parte in una lunga nottata sembra a tratti assimilarne la rudezza, l’aridità, la mancanza di una luce che dia un significato. I protagonisti impegnati nella ricerca di un cadavere in realtà ci accompagnano in un viaggio nelle loro vite, nei loro affanni, nelle loro mancanze, nelle loro presuntuose e vane certezze. Anche la varia umanità che compare si presenta come un insieme di individui impegnati nella lotta per la vita (la guarigione/cura di una malattia, portare l’elettricità in una zona che ne è priva, il conforto per chi ha bisogno). Mi è molto piaciuta la fotografia, come anche la scelta di far parlare spesso i volti. Non ho apprezzato i tempi dilatati e il soffermarsi su dettagli poco funzionali (oltre agli spari vogliamo parlare della mela?). A me hanno suggerito l’attesa di un qualcosa che è rimasto sfuggente. Ovvio che non tutto debba essere funzionale, ma mi chiedo se in questi casi non ci si trovi davanti ad un compiacimento del regista e ad un vezzo, che, se non richiama altro, risulta poco artistico.
    (concludendo: essì, il dottore è veramente molto affascinante!)

    • Annafranca Geusa scrive:

      E’ vero, le scene della mela e dello sparo possono sembrare dei vezzi poco funzionali o comunque difficilmente interpretabili, ma sotto alcuni aspetti sono intriganti a ben ci stanno proprio nella loro funzione ermetica e di interpretazione “personalizzata”…le mele che scorrono nel flusso come le vite di quegli uomini, che si raccolgono la dove il caso li blocca e il colpo di pistola che segna l’epilogo, ognuno che si allontana per la propria strada la mia personale interpretazione…un azzardo? una sciarada? …sarebbe carino averne la spiegazione del regista!

      • Daniela Lazzara scrive:

        sì, d’accordo sulla libera interpretazione..è che lo scorrere delle esistenze mi sembra solo un po’ troppo semplice. Sul senso del colpo di pistola, perché no? ;)

      • Stefano Chiesa scrive:

        In giro ho letto solo questo commento veloce sulla mela… “la mela nel suo percorso solitario”…

        • Annafranca Geusa scrive:

          Lo scorrere delle esistenze sarà banale ma, spulciando nel web, pare sia condivisa:
          “In una continua dialettica tra passato e presente, C’era una volta in Anatolia invita lo spettatore a un viaggio che è forse più nel tempo che non nello spazio (ci si interroga anche su un possibile destino della Turchia in Europa), seguendo i movimenti di un gruppo di uomini che, come tutti noi, non sono altro che mele che rotolano da un albero per rivi e pendii, apparentemente preda del caso”

          http://www.cultframe.com/2012/06/cera-una-volta-in-anatolia-film-nuri-bilge-ceylan/

  4. Stefano Chiesa scrive:

    A riguardo dell’autopsia finale (che ha molto diviso i presenti) in una parte dell’intervista a Ceylan che abbiamo tolto per non raccontare troppo del film, il regista turco dice:

    “Ci sono registi che amano mostrare la violenza. Per quanto mi riguarda, non mi piace che venga filmata in quel modo. Io preferisco farla sentire e non descriverla. È la violenza interiore che mi interessa, oppure la violenza quale viene percepita dai personaggi. Gli uomini che praticano l’autopsia lo fanno come un lavoro di routine, come se stessero preparando un pasto. La banalità di ogni gesto non fa altro che rafforzare il terrore che quell’operazione suscita negli spettatori.”

  5. Stefano Chiesa scrive:

    L’incipit di questo film e’ davvero affascinante… tre macchine che vagano per le steppe dell’Anatolia alla ricerca di un fantomatico luogo dove un cadavere e’ stato sepolto…
    Gia’ subito ci si rende conto che piu’ del ritrovamento quello che conta e’ la ricerca stessa (come penso sia nel nostro cammino della vita), i paesaggi turchi diventano un mero “non-luogo” per accogliere il peregrinare dei personaggi persi all’interno dei propri pensieri… e’ quasi un “cuore di tenebra” che toglie ogni riferimento, dilata i tempi della mente e mette a confronto gli uomini con la propria coscienza.

    Nuri Bilge Ceylan vuole farci vivere questa esperienza allo stesso livello dei personaggi del film, farci immedesimare nella loro angoscia, nella loro noia esistenziale e per questa scelta il ritmo del film (sopratutto quello percepito sulla poltrona del cinema) e’ davvero molto lento e richiede allo spettatore un elevato impegno, in particolare quello di voler aderire e farsi inghiottire nella psicologia dei personaggi.

    Comunque la regia, la fotografia (i panorami dell’Anatolia sono ripresi splendidamente, soprattutto durante le scene notturne) e la direzione degli attori mi sono parse ottimi.
    Anche i volti cosi’ intensi degli attori mi sono rimasti dentro… Muhammet Uzuner (il medico) per me e’ davvero bravissimo…

    Due ore e mezza non facili, ma necessarie in un panorama cinematografico attuale purtroppo cosi’ legato agli stessi standard… di durata, di temi, di approcio con lo spettatore…

  6. Cristina Ruggieri scrive:

    Il film forse dovrebbe intitolarsi “La ricerca della verità”, verità che si incarna materialmente nel cadavere a lungo cercato nella notte ed emotivamente nelle domande esistenziali che ciascun personaggio pone a se stesso nelle conversazioni nel cuore della notte.
    Al centro della ricerca c’è il medico, che sembra avere il ruolo di colui che solleva il velo del dubbio e rivelando il lato oscuro dell’essere umano. Così, smantella le illusioni del procuratore, rivelandogli che quello della moglie è stato probabilmente un suicidio e, sempre grazie alla scienza, scopre che l’uomo assassinato era stato seppellito vivo.
    Ma a questo punto Ceylan e con lui il film sembra chiedersi: è davvero utile sapere la verità? Sapere ad esempio che gli esseri umani possono raggiungere punte impensabili di crudeltà per punire qualcuno che ritengono colpevole?
    Per tutto il film, il dottore sembra portarsi costantemente addosso il peso delle proprie consapevolezze. Del resto è proprio dell’uomo di scienza affrontare la realtà, senza facili illusioni. Ma forse è proprio per questo che alla fine decide di non rivelare la terribile verità che ha scoperto, rendendo così la vita un po’ più leggera agli altri protagonisti della storia (Kenan, la vedova, il figlio).

  7. Annafranca Geusa scrive:

    Il viaggio alla ricerca di un cadavere diventa un viaggio nello svelarsi a se stessi e agli altri, nel riflettere sul dovere, sulla vita, sulla bellezza, sull’amore, e sulle proprie paure, fallimenti, colpe, complice una notte un po’ tempestosa e un paesaggio arioso e secco, un po’ duro, un po’ elettrico.
    Ognuno tira fuori il suo dramma, il suo sottile tormento con un’interpretazione di sguardi intensi e di scatti improvvisi che rendono bene il tumulto interiore di ognuno di loro, dell’assassino che forse si addossa una colpa non sua e rivela tutta la sua fragilità di fronte al miracolo della bellezza, del procuratore che si è adagiato su un pensiero surreale per non fare i conti con un dolore più profondo, del dottor Cemal, dallo sguardo così intenso (ed è decisamente bravo e bello Muhammet Uzuner, un Fassbender turco, oserei)
    che lascia trapelare forse un amore lontano o difficile e un’umanità complessa, del commissario con i suoi scatti d’ira e di frustrazione.
    Il film regge la durata e non annoia con una regia strana ma affascinante che gioca sui chiaroscuri , con apertura sui paesaggi, chiusure su occhi, sguardi e sorrisi sofferti.
    Il fascino mi ha abbandonato un po’ solo verso la fine, con la lunga e “burocratica” autopsia, col diletto un po’ inutile di sottolineare i passi salienti, con le pause fuori contesto, inutilmente sdrammatizzanti, ma mi ha riconquistata nel finale, con lo sguardo del dottore sul bimbo e la donna dell’uomo ucciso e con la forse pietosa bugia, tanto alla fine chi ha qualche colpa si è già autoinflitto la giusta punizione, con la propria dose di dolore.

  8. Bellissimo, il dottore. Bellissimo. Ma a cinque minuti dalla fine mi è venuto a noia…

  9. Marco Morrone scrive:

    A costo di sembrare precipitoso e, pur consapevole che abbiamo ancora davanti una lunga stagione cinematografica, che ci serberà ancora chissà quante altre soddisfazioni (…), sento di poter affermare che questo “C’era una volta in Anatolia” sia il più bello ed avvincente film thriller esistenziale turco, campestre e bucolico – nel senso che si andava cercando una buca in un campo – di durata superiore o uguale ai centocinquanta minuti, ambientato nelle ridenti campagne di Saliciullu, quasi al confine con Casarciullu, a ben 37 chilometri di distanza dal capoluogo, avente come vittima un uomo di età compresa tra i trenta e i quaranta anni di peso approssimativo di 70/80 chili, con i baffetti da sparviero stile Clark Gable (ma mai tanto quanto il procuratore) che mi sia capitato di vedere negli ultimi mesi e che, a meno di sorprese, temo non avrà rivali nel suo genere.
    Consiglio dunque spassionatamente la visione a tutti gli amici del cinema (e so che sono numerosi) che adorano i film thriller esistenziali turchi, campestri e bucolici di durata superiore o uguale ai centocinquanta minuti, ambientati in Anatolia, aventi come vittime uomini di età compresa tra i trenta e i quaranta anni di peso approssimativo di 70/80 chili, con i baffetti da sparviero stile Clark Gable, genere cinematografico particolarmente popolare in terra ottomana, che ha già prodotto gemme poco conosciute al cinema Europeo quali “Accadde in Cappadocia”- un uomo viene ucciso per errore da due cugini, dopo una notte di bagordi a base di Raki, e seppellito sotto un tipico camino delle fate, non lontano da una casa di tufo e da una graminacea rinsecchita; parte una squadra alla ricerca del corpo, ma non è facile perché i camini si assomigliano un po’ tutti; durante l’autopsia finale si rinviene un masso nel polmone destro del morto, chiaro indizio che forse era ancora vivo al momento della sepoltura – “E’ Capitato sul Bosforo” – un uomo viene ucciso per distrazione da due fratellastri, dopo un’abbuffata a base di fritto misto di sardalya, palamut e ukumru, e seppellito sotto uno scoglio, vicino ad una salina, con sullo sfondo alcune piante di limoni ; parte una squadra di sommozzatori alla ricerca del cadavere, ma non è facile perché al buio tutti gli scogli sono neri e si fa fatica a distinguerli; durante l’autopsia finale si rinviene una triglia grigia intera nella narice della vittima, inquietante segno che forse il morto non era così morto al momento della tumulazione. Ovviamente sono film ancora abbastanza immaturi ed ingenui, che risentono dell’inesperienza dei registi (manca il tocco magico di Nuri Bilge Ceylan), ma dobbiamo essere grati alla Ataturk Kemal Productions, nota casa di distribuzione che cerca lotta da anni per la promozione dei prodotti di celluloide anatolici, per averci dato la ghiottissima occasione di gustarci questi piccoli capolavori, altrimenti destinati all’oblio!

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