Pietà

Questo e’ lo spazio dedicato a tutti i commenti, critiche e spunti di discussione che vorrete lasciare sul film vincitore del Leone d’Oro alla 69^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, “Pietà”.

 

Dati Tecnici

Regia: Kim Ki-Duk

Con: Lee Jung-Jin, Jo Min-Su

Durata: 104 minuti

Trama 

Assunto da uno strozzino per ottenere il pagamento dei debiti da clienti insolventi, Kang-do ha l’idea di storpiare le vittime al fine di ottenere i risarcimenti assicurativi, corrispondenti al dovuto. Sulle strade del suo “lavoro” un giorno compare una donna, che si dichiara sua madre e che da quel momento lo seguirà come un’ombra, addossandosi la colpa di ogni suo crimine, avendolo abbandonato alla nascita e lasciato crescere senza amore. Dopo averla sottoposta alle prove più terribili per accertarsi che dica la verità, Kang-do accetta finalmente la sua presenza e ma la paura di perderla lo mette, a sua volta, nella posizione di scacco in cui ha sempre tenuto le sue vittime, fino all’inesorabile, tragico epilogo.

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  1. Luca Tavian scrive:

    Mi limiterò a delle riflessione di carattere sociale. A differenza del medioevo (dove nascevi e morivi servo della gleba) nel capitalismo uno su mille ce la fa. Questa possibilità tuttavia è illusoria. Una quota sempre minore di persone si può permettere un lavoro autonomo, l’attività in proprio, la bottega o l’officina di tipo familiare che vediamo nel film. La tendenza storica va verso sempre una maggiore concentrazione del capitale in poche mani e i pesci piccoli vengono spazzati via. Un imprenditore in difficoltà si rivolge in prima istanze alle banche (aspetto legale del capitalismo). Se non ottiene il prestito, il miraggio di poter avere sufficienti profitti lo spinge al rischio di rapportarsi agli usurai (aspetto illegale del capitalismo). [Nel film le cifre in gioco sono 2.000 euro di prestito iniziale e cifra da restituire attorno ai 20.000 euro]. In ogni caso il destino della maggior parte delle attività con poco capitale è la bancarotta finanziaria (pignoramenti, sequestri) o il disastro personale e familiare (la violenza che vediamo ne film). I miti della modernità sono i singoli come Steve Jobs (che ha incominciato a costruire i suoi primi lavori nel garage dei genitori quando aveva appena 20 anni) o Silvio Berlusconi (che per avviare la sua attività imprenditoriale nel 1961 nel campo dell’edilizia impegnò 30 milioni di lire provenienti dalla liquidazione anticipata di suo padre Luigi). Ma per uno che viene osannato e messo in bella mostra dai mass-media ci sono 999 che un film come quello di Kim Ki-duk non ci fa dimenticare

    • Mi rendo conto che le percezioni e le interpretazioni sono così radicalmente diverse che non è utile approfondirle ma semplicemente prenderne atto. A me una cosa pare certa, il film parla del “male” (non capisco con quale scopo, a dirla tutta). Non è il primo film che ne parla, né opera artistisca e non sarà nemmeno l’ultima, dato che il male merita attenzione e indagine. Secondo me ne parla in modo inutile. il male esiste, spesso ha delle motivazioni (psicologiche/psichiche? materiali?) spesso, mi tocca constatare, ahimé dopo averlo negato fino alla mia età, non ha nessuna motivazione. Il male è semplicemente dell’uomo, come lo è l’amore, ma anche la cacca, il sangue, la morte. Quello di cui non trovo riscontro tra questo film e molte interpretazioni è l’identità male-capitalismo. Il male, ahimé, esiste prima e a prescindere dal capitalismo. Il quale, poi, oltrettutto e anche purtroppo, è morto pure lui. Come Freud, Marx etc etc. Il male, invece, vivrà per sempre, come pure l’amore, la mamma e i bambini, il sangue la cacca e il progresso…

      • Marta Erba scrive:

        ***SPOILER*** SI CONSIGLIA DI NON LEGGERE A CHI NON HA VISTO IL FILM***
        Perché dici che il capitalismo è morto? Magari lo fosse, io invece penso che sia più vivo che mai, e venga anzi oggi percepito – soprattutto dall’89 in poi – come l’unico dei sistemi possibili, al punto tale che oramai accettiamo passivamente tutte le sue aberrazioni come se non ci fossero alternative. Proprio da questo Kim Ki-duk, secondo me, ci mette in guardia. Il protagonista, infatti, non fa del male per il gusto di farlo, si limita a riscuotere i soldi secondo modalità che aveva concordato prima di concedere i prestiti. A chi lo accusa di essere un bastardo replica “i bastardi siete voi che non mi pagate, dovevate pensarci prima”. Ugo, qui sotto, fa notare che i suoi sistemi sono al di fuori delle regole e più vicini a quelli adottati dalla criminalità organizzata. A parte che la criminalità organizzata col capitalismo ci va a nozze, ma secondo voi il capitalismo si muove davvero “secondo le regole”? Se mai è allergico alle regole, tanto che fa di tutto per violarle, raggirarle o modificarle per favorire chi i soldi ce li ha (perfino andando al governo e depenalizzando i reati finanziari…). Pietà è un film coreano, la realtà che rappresenta risente di quella cultura, ma la deriva che racconta non è molto lontana dalla nostra (o da quella che si prospetta nei tempi a venire). Pensiamo a chi vende un rene per pagare i debiti, o ai suicidi per bancarotta. E non mi stupirebbe affatto se qualcuno cominciasse a provocarsi un’invalidità per riscuotere l’assicurazione o la pensione, magari perché è l’unica possibilità per mantenere la famiglia.
        Il secondo tema è la pietà del titolo, il cui momento topico è quello in cui la madre si butta dall’edificio: proprio nel momento in cui sta per completare la sua “vendetta perfetta” scopre di provare per il responsabile della morte del figlio lo stesso affetto che prova per il figlio. Ne ha colto il dolore, la storia, e ora prova pietà per lui. Il suo suicidio, progettato per terminare la propria agonia e passarla all’assassino del figlio, perde quindi di senso. Ma il dolore è tale che si butta allo stesso. Nemmeno la pietà, alla fine, vince.
        Kim ki-duk ci mette di fronte a una società che fa uscire il peggio di noi e da cui non sappiamo più difenderci.
        Per me un leone d’oro più che meritato.

        • Ripeto, posizioni assolutamente diverse. Forse abbiamo una definizione di capitalismo diversa. E mi chiedo in che modo il giovanotto del film possa essere considerato un rappresentante significativo del capitalismo e della sua filosofia (tra l’altro, lo squallore molare, esistenziale e affettivo della sua vita che viene descritto nei dettagli più corporei e fisiologici – cui prodest, con tanta insistenza? – è accompagnato dalla sostanziale miseria materiale: che se ne fa dei suoi soldi? Non mi pare conduca una vita minimamente agiata dal punto di vista materiale. Cos’è un criminale deviato perverso buddhista-zen?) . Le sue vittime sono complici con lui nell’imbroglio alle assicurazioni (assicurazioni eh, non stato sociale, quindi le finanziarie, le portabandiera del capitalismo). Le sue vittime dimostrano soprattutto ignoranza e ingenuità, ingenuità che rasenta la dabbenaggine (si veda la recensione che ho citato). Non provano nemmeno a fuggire. Avete fatto caso che lui non usa le armi? E’ solo e usa solo le mani. Nesssuna delle vittime prova a scappare o a difendersi, neanche prende in considerzione la cosa. Mica ha un mitra lui, e che cavolo, provaci a scappare, no? A me questa cosa ha colpito moltissimo e credo che fosse uno dei messaggi che il regista ha voluto passare. L’inerzia dei molti. Una delle vittime, mentre la moglie si immola al carnefice – sua sponte!!!! – che peraltro è indifferente all’offerta carnale, se ne sta fuori a fumarsi una sigaretta, aspettando il suo turno. E’ colpa del capitalismo? E che dire dell’atteggiamento del chitarrista? Com’è che l’unica scelta che costoro hanno è quella del suicidio? Si suicidano e lasciano persona che le amano (donne: madri, mogli, etc che continuano a vivere). In ultimo, un altro protagonista forte del film, l’unico davvero positivo, la fidanzata di una delle vittime (l’autista del camion con cui lui si suicida per intendersi): lei si che si ribella, è l’unica che lo insulta, che non ne ha paura. Lo scuote, molto di più della madre. E, soprattutto, lei dà chiaramente dell’imbecille (a più riprese nel racconto) al compagno caduto nella trappola. Il compagno, talmente imbecille, che quando il giovanotto va a cercare la madre nella loro abitazione, non ha altre reazione se non quella del terrore – e rimane a letto – mentre la donna sta in piedi, si fa avanti, si difende, almeno a parole (e quanto toccano quelle parole). E’ lei la “donna” del film, non quella specie di Medea-Mater Dolorosa-Perversa che si suicida alla fine (la quale peraltro, seppure morbosamente, a differenza delle vittime, agisce, ha un piano, un’idea, un progetto). Lei dimostra che ribellarsi è possibile, doveroso, dignitoso. Lei e anche il ragazzino che tenta di accoltellare il giovane con una matita. L’opposto rispetto all’idiozia del chitarrista che non ha idee, non ha progetti. Ugo ha fatto notare come lo stesso capo del ragazzo si dissoci dalla macelleria: la criminalità organizzata detesta lo spreco, anche di violenza (e le ragioni sono anche spiegate: da una parte c’è un disgusto per l’eccesso e anche “pietà” – guarda un po’ – e poi: mo’ adesso chi le controlla le reazioni delle vittime?) Il ragazzo è un deviato, anche per i deviati. Se preferite considerarlo une epigono di Adam Smith, ripeto, ognuno ha le sue idee.

          • Mi scuso per i passaggi logici affrettati: la donna per la quale faccio il tifo (quella che secondo me dimostra che ribellarsi è possibile etc.) è sempre l’autista del camioncino. :) :)

          • Marta Erba scrive:

            Hai detto bene, le vittime accettano e non reagiscono più di tanto perché anche loro accettano il sistema. Con l’eccezione, come giustamente fai notare, dell’autista del camioncino e del bambino: sono loro due gli unici ribelli al sistema e, se vogliamo, i veri “eroi” del film. Il protagonista non è affatto un epigono di Adam Smith, quanto una vittima come tutti gli altri, e alla fine infatti starà male anche lui (ma stava male anche prima). La madre è una raffinata vendicatrice, ma alla fine il suo successo le si ritorce contro.

  2. Ugo Besson scrive:

    Il regista vuole rappresentare e denunciare la disperazione di famiglie impoverite dalla crisi e stritolate da debiti con interessi usurari e la deformazione disumana di una società fondata sul denaro e il profitto, e allo stesso tempo affrontare il tema del dramma dell’abbandono, della solitudine affettiva e del complesso rapporto viscerale fra madre e figlio. Realizza un film di rara crudezza espressiva e tensione tragica, senza sconti e concessioni a divagazioni di contorno. Un film brutto. Nel senso estetico del termine, anche se ormai lo scopo dell’arte non può più essere solo il bello, né il vero, ma stimolare una riflessione sul mondo e la vita, offrire uno sguardo particolare e inconsueto su aspetti e significati. Tuttavia a volte si cerca soprattutto l’effetto clamoroso, la sorpresa, la stranezza, la provocazione, e si trovano cose come le feci d’autore di Manzoni o le esibizioni auto-lesioniste di Abramovic. Qui lo sguardo dell’autore mi è sembrato angusto e nevrotico. Se voleva dare un pugno nello stomaco, impressionare lo spettatore, c’è riuscito, se voleva fare un buon film di qualità illuminando con efficacia stilistica tematiche rilevanti, ha fallito. Una sequenza ripetitiva di scene di violenza sanguinolenta e di crudeltà efferata, mostrate con perversa evidenza e insistenza, anche nel trattare animali destinati alla cucina (siamo tutti come anguille e polli, triturati nel meccanismo spietato del sistema dominato dal denaro?). Dialoghi quasi inesistenti, con qualche frase banale che forse pretendeva rivelare qualche verità inattesa e profonda, come “cos’è il denaro? L’inizio e la fine di tutto” (ci vorrebbe qualcosa di meglio per vincere il leone d’oro…). A parte la madre, brava, la recitazione degli attori è monocorde. La doppia tematica, sociale e psicologica, per la netta prevalenza della seconda, riduce la prima in un orizzonte angusto e schematico. Non esiste sfondo di contesto sociale o ambientale, siamo sempre chiusi in angusti spazi, anche il lavoro operaio, tipico luogo e occasione di condivisione e socializzazione, diventa fatto solitario, privato, quasi intimistico. Vediamo solo un paio di scene allargate. Una in cui sul panorama di casette basse ci viene annunciato con profetica drammaticità che anche lì sorgerà un grattacielo, simbolo della crudele legge del profitto. Un’altra in cui i due protagonisti apparentemente rilassati e contenti passeggiano in città, salvo scatenare subito frasi sopratono e un litigio violento con ignaro passante colpevole di sorridere del gioco da bambino cui il protagonista si dedica, rappresentazione semplicistica e ingenua del desiderio di vivere la situazione di bambino con la mamma presunta ritrovata. Il trattamento psicologico dei personaggi mi è sembrato superficiale, quasi astratto e tipizzato, come elementi di un teorema che si sviluppa con meccanica precisione. Non si sa quasi niente del vissuto dei personaggi, oltre allo schema narrativo principale, e sempre limitato al rapporto genitore figlio. La violenza, il sangue mostrato, e le altre mutilazioni fisiche mi sembrano più il fine che il mezzo espressivo, anche per questo fastidiosi. Il protagonista è spietato, nel senso appunto che manca di pietà, cioè di partecipazione e compassione al dolore degli altri umani (e animali). E anche la madre, alla fine, fa prevalere il desiderio di vendetta alla pietà che tuttavia stava emergendo.

    • Cristina Ruggieri scrive:

      Io credo che più che la disperazione delle famiglie, Kim Ki-Duk rappresenti l’indifferenza con cui il capitale, per mano di Kang-Do, pretende di riavere il proprio danaro. Il principio è ben chiaro: il denaro è stato prestato e utilizzato, le condizioni erano chiare. Non c’è crudeltà da parte di Kang-Do e nemmeno piacere nel colpire. C’è solo disprezzo. Lo stesso che percepisco nelle parole dei tedeschi quando parlano dei paesi della “dolce vita” incapaci di ripagare i debiti.
      Il rapporto gentore figlio di cui parli è in realtà un rapporto d’amore. E come ho scritto nel mio commento qui sotto, l’amore è una forza dell’anima talmente superiore alle altre da rendere triste anche una vendetta così abilmente costruita.
      Infine sul finale: nonostante la pietà, l’anima della protagonista era stata ferita a morte e continuare a vivere sarebbe stato troppo pesante.
      Poi, capisco che lo stile possa non piacere. Ma non trovo ci sia compiacimento nella violenza o desiderio di stupire. Poi sono curiosa su una cosa: tu avevi capito come andava a finire, o sei rimasto sorpreso?

      • Ugo Besson scrive:

        La crudeltà del protagonista è abbastanza patologica, infatti esercita la violenza anche su se stesso e violenta anche la donna presunta madre, proprio la sua indifferenza è patologica, infatti dopo cambia atteggiamento, il che mostra che non considera più normale o accettabile quello precedente, d’altronde anche il suo capo glielo dice, sei un violento macellaio, ti ho chiesto di riscuotere i crediti non di massacrare i creditori. E dopo, volendo fare un piacere alla madre, la prima cosa che gli viene in mente è: Vuoi che uccida qualcuno?
        Opera in modo non solo immorale ma illegale, non è tutto permesso nei paesi capitalistici, ci sono delle regole. In Italia, paese capitalistico, fare prestiti a tasso eccessivo (anche del 20%) è considerato usura ed è un reato, un contratto a tassi del 100-1000% come nel film sarebbe illegale e nullo. Inoltre spaccare mani o gambe per ottenere indennizzi è anche una truffa nei confronti dell’assicurazione. Il protagonista svolge un’attività criminale con un’organizzazione criminale, in modo violento e spietato, come da noi certi gruppi di camorra e mafia. Va in giro a chiedere soldi minacciando di spaccare mani o gambe, come i mafiosi che vanno in giro a chiedere il pizzo minacciando ritorsioni. Non segue le leggi del capitale ma quelle della criminalità organizzata. E non sono la stessa cosa, nonostante i guasti sociali provocati da un certo capitalismo. Metterli sullo stesso piano mi sembra sbagliato e pericoloso. Forse il regista voleva rappresentare le regole spietate del capitalismo, ha invece descritto i metodi della criminalità e in questo modo non è credibile.

  3. Cristina Bellosio scrive:

    Il grande pregio di questo film è nella potenza espressiva delle immagini, delle urla di dolore e delle parole scarne ed essenziali che i personaggi pronunciano. Il mondo ritratto da Kim Ki Duk è un mondo apocalittico, dove il denaro è l’unico motore di un ingranaggio che domina e fa a pezzi chi ne è vittima. Il protagonista è l’emblema di questa umanità, dominata dall’istinto e che ha smarrito le caratteristiche che la differenziano dal mondo animale. La prima parte del film ci introduce con immagini crude e spietate in questo girone infernale, dove non c’è spazio per un sentire profondo e puro, ma solo per l’apatia ( quella del protagonista) e per le urla di dolore ( quelle delle vittime). Nella seconda parte del film è una donna, una madre che accompagna l’uomo a ritrovare la compassione e ad assumersi il peso delle proprie colpe. All’inizio, da spettatori di questa tragedia istintivamente vorremmo scappare, evadere, chiudere gli occhi…poi non possiamo che decidere di restare e prendere parte a questa vicenda umana…

  4. Davvero qui si è parlato di capitale e di capitalismo? Cioè oltre allo sfruttamento intensivo – e molto da Circolo dell’Autobus” – di Freud, in questo film, abbiamo anche quello di Marx? Io direi di no. Almeno, ci fosse questa suggestione! Delle tante recensioni che ho letto su questo film, la considerazione con la quale mi sono trovata più dìaccordo è: “Non c’è dubbio che Pietà sia un film sulla sproporzione. (…) La crudeltà di Kang-do è fuori misura, così come la stupidità di alcuni debitori” ( Marianna Cappi, http://www.mymovies.it/film/2012/pieta/). Mi sa proprio che qui non è il capitalismo che è messo in discussione. E io trovo molte analogie con i recentissimi fatti di “politica” internazionale.

  5. Cristina Ruggieri scrive:

    Nonostante avessi letto tutto quello che era stato scritto in occasione della presentazione di Pietà alla Mostra del cinema di Venezia, Kim Ki-Duk è riuscito a sorprendermi. Pietà è un film teso, che cattura nella spirale di immagini, giocando sulla curiosità e sul desiderio di capire che cosa sta realmente accadendo, oltre ciò che appare sullo schermo.
    E’ difficile parlare di questo film, della sua bellezza, dei suoi contenuti, senza rivelarne il percorso di scoperta che Kim Ki-Duk prepara per lo spettatore. Kim Ki-Duk a differenza di Kitano o Tarantino fa un cinema che non è estetizzante e la violenza nei suoi film è funzionale invece che spettacolare. Mi ha colpito in Pietà l’assenza di partecipazione con cui il protagonista compie le sue violenze. Non c’è sadismo e nemmeno rabbia. C’è piuttosto la noia e l’ineluttabilità di un lavoro routinario ma necesario per (soprav) vivere: c’è insomma la sottomissione alle leggi del capitale, senza la consapevolezza di esserne divenuti schiavi.
    In questo senso Pietà è un atto d’accuso contro il capitalismo e un atto d’amore verso un’umanità fondata sul lavoro che a causa del capitale sta scomparendo: le immagini delle macchine che producono e che presto verranno smantellate è indimenticabile.
    Ma Pietà è anche un film sull’amore, unico vero motore della vita, che rende vulnerabili e quindi umani. E che, come nei versi di Dante “a nullo amato amar perdona”, rendendo inappagante e triste anche la vendetta perfettamente riuscita.
    Infine è un film sul dolore, quello vero, che non è il dolore del corpo, ma quello dell’anima. La peggiore punizione quindi non è la morte, che tutto placa, ma il ferimento dell’anima.
    E qui inserisco una mia personalissima riflessione, che forse non era nemmeno negli intenti di Kim Ki-Duk: quanto è diventato normale oggi abbandonare con superficialità chi ci ama, ferendone l’anima, e inducendo un dolore che, ci dice Kim Ki-Duk, è ben peggiore della morte.

  6. Elena Costa scrive:

    Ieri sera sono andata al cinema col gruppo a vedere il vincitore del Leone d’Oro a Venezia, Kim-Ki-Duk con PIETA’.
    Io solitamente esco da un film avendo idee chiare e perfette: mi piace o non mi piace. Ieri no. Un film discutibile che mi ha lasciata perplessa. Ci sono parti geniali e stupende ma nell’insieme mi ha mol…to annoiata. Se mentre sono in sala continuo a guardare l’orologio, questo per me è un chiaro sintomo. Non posso dire di più perchè, come in tutte le cose, è sempre un fatto personale la critica. Si è già parlato anche troppo di Pietà e quindi non aggiungo. Non posso neppure fare paragoni su eventuali altri candidati più meritevoli perchè non ho visto gli altri films. Di certo non lo rivedrei.

    • Cristina Ruggieri scrive:

      Una domanda Elena: ma tu non sei rimasta sorpresa dal finale? Avevi già capito tutto?

  7. Paola Brambilla scrive:

    Fotografia e scenografia meravigliose, grande senso estetico. Ma la crudezza e la forza di questo film sono come pugni nello stomaco. Si soffre anche fisicamente, guardandolo. Tocca nel profondo. All’inizio vien quasi voglia di uscire, di non vedere, di non sapere. Poi tutto si stempera. Scena dopo scena si fa strada la consapevolezza. Si accettano anche le situazioni più dolorose. Si intuisce un progetto, che via via si snoda e diventa sempre più chiaro. Curiosamente non vien voglia di giudicare. Solo di capire. Dolore, sete di vendetta, paura, lucidità, coraggio, irresponsabilità, determinazione…. tutto si mischia e non si sa più chi è cattivo e chi buono, chi lucido e chi malato. Un personaggio tenero e delicato quanto misterioso, una donna, alla fine appare dal nulla e cerca di fermare l’inevitabile. Ma la macchina ormai è in movimento. Inarrestabile nella sua follia. Bello. Molti dettagli in apparenza insignificanti si capiscono soltanto dopo aver visto le ultime scene. E “rileggerli” alla luce del poi è un nuovo pugno nello stomaco. Da rivedere!

    • Cristina Ruggieri scrive:

      Concordo. Paradossalmente per me, alla prima visione del film, il progetto era tutt’altro da quello svelato alla fine. E quindi il film mi ha sorpreso. La seconda visione però, nonostante avessi già acquisito la consapevolezza, è stata altrettanto interessante, perchè mi ha rivelato i tanti piccoli dettagli che Kim Ki-Duk dissemina nel film per indicarci la natura del progetto. Solo che, accecata dall’apparenza e dal mio pregiudizio interiore, alla prima visione ho finito per non accorgermi della sostanza. Per questo ho trovato il percorso di Kim Ki-Duk affascinante.

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