Oltre le colline

 

Il film prescelto per la serata del 7 novembre è stato “Oltre le colline”, vincitore del premio per la migliore sceneggiatura e le migliori attrici al festival di Cannes. Commentiamo e discutiamo  in questo spazio!

TRAMA: Alina torna dalla Germania per prendere Voichita, l’unica persona che abbia mai amato e che mai amerà. Ma Voichita ha incontrato Dio e in amore, è molto difficile avere Dio come rivale.

 

 

GENERE: : drammatico

REGIA: Cristian Mungiu

SCENEGGIATURA: Cristian Mungiu

ATTORI:
Cosmina Stratan, Cristina Flutur, Valeriu Andriuta, Dana Talapaga

PAESE: Romania 2012
DURATA: 150 Min

 

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  1. Ugo Besson scrive:

    Ah, consideravo chiusa la discussione e ora Marta mi spinge a intervenire di nuovo … Sono d’accordo, il film può suggerire interpretazioni differenti, direi ogni film di qualità, è anche il bello del cinema, e l’interesse del dibattito, ogni occhio e ogni mente filtra le immagini in modo differente, guardiamo le stesse immagini ma vediamo cose un po’ diverse o consideriamo in modo differente cos’è essenziale e cosa dettaglio.
    Per esempio, per me non è un dettaglio la violenza fisica su Alina. Alina non muore per i suoi contrasti con la comunità né per la sua tristezza e sofferenza sentimentale e neanche per le preghiere di esorcismo del prete, muore per le violenze che sono fatte su di lei e perché rimane legata senza cibo. Non la uccide la religione (ci sono tanti preti in Romania e in Italia, ma in genere nessuno lega e imbavaglia le ragazze) ma il fanatismo e la dipendenza da un capo carismatico in un micromondo chiuso e autoreferenziale, che può condurre alla perdita del senso del limite e a fare o lasciar fare cose inammissibili in qualunque contesto civile (infatti devono nascondersi ed evitare di essere scoperti). È un fenomeno che si ripete in varie situazioni di legame fanatico. E il film mostra bene come può crearsi progressivamente questa perdita del limite e del senso di realtà e ne denuncia la pericolosità (inutile fare esempi storici che abbondano). In effetti, chiunque in uno stato mentale normale prevede che una persona lasciata in quello stato e digiuna per giorni può gravemente ammalarsi e morire, mentre loro sembrano sorpresi quando lo scoprono, allucinati dal fanatismo. Legare una ragazza e lasciarla senza cibo per giorni è inammissibile, qualunque sia il motivo, non deve essere tollerato, è un delitto orribile, quelli che lo fanno sono colpevoli, loro solo e non altri, poi si possono approfondire le motivazioni e il contesto. Il prete e le altre hanno pensato alla sofferenza della ragazza mentre recitavano le loro preghiere? Si sono immedesimati in quello che lei poteva provare in quei momenti, alla terribile agonia di morire di fame? L’indifferenza per la sofferenza del vicino è la cosa peggiore, la perdita di umanità e compassione, schiacciate da un’idea fanatica.
    Voichita chiede di fare la preghiera ma non chiede di legarla e lasciarla digiuna, anzi dopo il prete le ordina di non assistere più alla graziosa cerimonia perché vede che lei ha dei dubbi (meno male!), poi lei chiede di darle cibo e acqua ma le dicono di no perché altrimenti si alimenta e rinforza il demonio che è in lei. Qui è la differenza, che non è un dettaglio, è la colpa grave. Ma Voichita anche è corresponsabile della morte di Alina, colpevole per omissione di soccorso o complicità, con molte attenuanti certo, anche perché poi interviene pur se troppo tardi. Come sottolinea Marta, quando arriva la macchina, Voichita potrebbe far intervenire qualcuno ma non lo fa. È appunto quel fenomeno per cui si arriva a accettare o a lasciar fare cose normalmente intollerabili e si fa fatica a reagire, a rompere il cerchio del condizionamento. Guardiamo le cose dall’esterno, quando Voichita fa la guardia al cancello, sta facendo da palo a persone che stanno compiendo una violenza, un delitto, è complice perché protegge gli esecutori materiali.
    La realtà esterna irrompe con le accuse precise del poliziotto: violenza e limitazione della libertà. E quando il prete obietta che in ospedale un medico non è colpevole se muore un malato che sta curando, il poliziotto risponde “ma questo non è un ospedale”. In un delirio di onnipotenza il prete credeva di essere padre, medico, santo, delegato di Dio …

    • Marta Erba scrive:

      Sono abbastanza d’accordo con te, Ugo, ma è vero anche che il medico aveva affidato al monastero la cura della ragazza, ben sapendo che era gestito da un prete e non da un medico. Inoltre nell’ultima scena il prete e le suore non si sottraggono ai poliziotti, a dimostrazione che erano tutti convinti di avere agito nel migliore dei modi: probabilmente esistono manuali di esorcismo secondo cui le cose vanno condotte in quel modo. Non sono convinta che Alina muoia solo per i maltrattamenti e la fame, quanto per la malattia polmonare che già aveva e che l’aveva già debilitata. Insomma: secondo me il film di Mungiu non è tanto un’accusa al fanatismo religioso quanto il tentativo di ricostruire come una serie di concause diverse e complesse (di cui il fanatismo religioso è la più evidente, forse, ma non l’unica) possa arrivare a un esito così drammatico.

      • Cristina Ruggieri scrive:

        Sono d’accordo Marta, erano tutti in buona fede, prete, suore, perfino Voichita. Ma questo rende ancora più tremenda la loro cecità, dovuta come dice giustamente Ugo al fanatismo. Il messaggio del film a me sembra essere uno e uno soltanto: l’affidarsi dell’uomo a principi assoluti, indiscutibili, è rassicurante. Seguire pprecetti prestabiliti, toglie la necessità di dover scegliere e quindi anche di assumersi delle responsabilità . Ma, sottolinea Mungiu, costa un prezzo altissimo: causa la perdita della capacità di vedere, sentire e in sostanza di vivere (c’è una bellissima frase di Alina a Voichita che le dice proprio questo).
        E se in nome dei principi, anche dei più alti, l’essere umano perde la capacità di vedere la realtà, di “sentire” ciò che accade veramente, non si salva.
        Ciò che uccide Alina è la buona fede cieca di un mondo che ha abdicato alla sua umanità in nome dell’assoluto.

  2. Thank for the lesson, Ugo.

  3. Ugo Besson scrive:

    Il mio giudizio è molto positivo, un film intenso, con grande eleganza e rigore di immagini, mi hanno colpito quelle scene lunghe con inquadrature ampie a macchina fissa, quadri definiti con grande cura dei particolari da includere, del rapporto fra le forme e i colori. Le due attrici sono molto brave. Non mi è sembrato neanche lento o noioso, piuttosto un po’ inquietante, ma coinvolgente. La narrazione esplora con finezza la progressione psicologica di una discesa verso il disastro e i mutamenti psicologici e relazionali, con una cura analitica quasi da studioso. Mi ha fatto pensare, chissà perché, a “La stanza del figlio” di Nanni Moretti, che metteva in scena l’evoluzione della sofferenza e del lutto, con una discesa progressiva e una ripresa finale.
    Sull’interpretazione non sono molto d’accordo con Annafranca, né con Elena. A me non sembra tanto un film sull’amore o sulla fede. Io lo interpreto come un film sul fanatismo e la dipendenza, e i guasti che provocano. Il fanatismo religioso innanzi tutto, ma anche quello del sentimento di Alina nei confronti dell’amica, amore certo, ma morboso, nel senso di malato, ossessivo, di dipendenza. Diverso è l’amore nei suoi confronti di Voichita.
    Nella comunità, la religione è strumento di potere e di sottomissione (lo è cmq spesso), peraltro non è trascurabile che sia un uomo che ha il potere su tante donne. Accettano questo potere per essere protette da una società difficile e poco accogliente, ma anche per evitare la fatica della libertà, del libero pensiero, dell’autonomia. È un meccanismo ben noto e diffuso, la libertà intimorisce, è un campo aperto, meglio che qualcuno indichi le regole e le cose da fare, e allora si rinuncia ad esercitare il dubbio, l’argomentazione razionale, il controllo empirico, e ci si affida alla obbedienza o adorazione di un capo carismatico, di una autorità non discutibile, o di un libro sacro. Alina ad un certo punto ci prova, vuole verificare se c’è veramente l’icona magica, chiede di entrare nella sagrestia, al rifiuto domanda perché, e il prete è disorientato, non è abituato alle obiezioni, le altre rispondono che è così e basta, non hanno motivazioni, non c’è un perché, è una regola, stabilita da un’autorità che non si discute. Ma Alina è fragile, debole, non è in grado di opporsi in modo saldo e argomentato.
    Lo sconcertante è che con queste torture il prete e le altre credono di fare del bene ad Alina, di liberarla dal demonio. D’altronde le pratiche sulle indemoniate erano diffuse nel passato, sconcerta che possa esserci qualcosa di simile nei nostri tempi moderni, ma i riti per liberare dalla presunta presenza del demonio sono accettati ancora dalla Chiesa cattolica, ci sono gli esorcisti ufficiali, nominati dai vescovi, esiste una Associazione internazionale degli esorcisti, un manuale specifico, per un compito approvato e confermato dall’attuale Papa.
    Al contrario, il mondo esterno che appare fra medici e polizia, a me è sembrato ragionevole, umano, anche se con problemi e difetti, debolezze e compromessi. Non mi sembra un mondo senza speranze. Il medico ascolta Alina, la libera dai lacci, cerca soluzioni; l’impiegato dell’ufficio passaporti è accogliente, mentre svolge la pratica parla con altri impiegati di compleanni, amici, cose normali, della vita reale; il poliziotto del finale mette alle strette con considerazioni concrete e fattuali, aiutato da Voichita; poi nel camioncino l’autista fuma, il che era uno dei tanti peccati … Ci vedo umanità, compassione, anche se con un po’ di egoismo e piccoli opportunismi, che sono sempre meglio del fanatismo.
    Non è vero che tutti sono colpevoli e innocenti al tempo stesso, i colpevoli ci sono: prima di tutto e più di tutti il prete, poi le altre complici e al fondo il fanatismo religioso. Non certo i medici. E i colpevoli saranno processati e condannati dalla legge degli uomini.

    • Annafranca Geusa scrive:

      Credo sia limitativo e non rispondente al messaggio del film accollare la colpa solo al fanatismo religioso e al pope! Certo questo è preponderante ma è uno dei tanti colpevoli. Come giustamente hai sottolineato, Ugo, la comunità di donne sole che si aggrega al pope è tale perché la società intorno è difficile e poco accogliente, le ragazze uscite dall’orfanatrofio non sanno dove andare, le donne picchiate dal marito idem. Nello specifico di Alina è un medico che la lascia sola e senza una vera cura. Il pope non la vorrebbe nel monastero, fa di tutto per mandarla via ma alla fine sotto le insistenze di Vochita fa l’ultima cosa possibile che la sua religione gli consente, perché anche lui è stato lasciato solo dalla società!

      • Ugo Besson scrive:

        La società può essere la causa che spinge le donne ad andare nella comunità, ma quello che poi succede lì è responsabilità solo del prete, della suora e delle altre. La colpa della morte di Alina è solo del prete e delle donne della comunità e della loro superstizione fanatica. Certo, non volevano ucciderla, ma c’è comunque colpa. Alina non voleva stare nella comunità, voleva andare in Germania con l’amica, avevano già un lavoro da fare su una nave. Voichita chiede di andare fuori per qualche mese con Alina, il prete dice che allora non potrà più tornare perché chi parte poi quando torna non è più lo stesso (certo perché magari stando fuori cambiava idea e si liberava del condizionamento subito).
        Il medico non l’ha abbandonata, ha prescritto delle medicine, ha consigliato di lasciare l’ospedale che non aveva molti posti e comunque non è certo un bel luogo dove stare, perché pensava ragionevolmente che la ragazza poteva stare meglio, più tranquilla, nella comunità con una sua stanza con l’amica, aveva solo bisogno di riposo e tranquillità, non di un ospedale. Certo non immaginava che nella comunità l’avrebbero imbavagliata, legata ad una croce di legno e lasciata senza mangiare per giorni, per non nutrire il diavolo che era in lei. Se l’avesse saputo non l’avrebbe lasciata alla comunità (peraltro per farla curare il prete si è fatto dare 500 euro dei soldi di Alina, a sua insaputa).
        Annafranca, non capisco chi avrebbe lasciato solo il prete, è un uomo adulto e colto, ha relazioni con i superiori religiosi, celebra messa con molti fedeli che partecipano, dirige un gruppo di donne che lo rispetta e adora … Ma veramente l’unica cosa che poteva fare era legare e imbavagliare una ragazza innocente e lasciarla digiuna per giorni? Quale religione gli consentiva questo? Fra i 464 peccati non c’era quello di legare e imbavagliare una ragazza? O la presunzione di sapere dove sta il demonio e di essere capace di scacciarlo con le sue recitazioni?

        • Annafranca Geusa scrive:

          Ugo, il prete non vuole Alina nel monastero ma nessun altro l’accetta e lei vuole stare lì per costringere Voichita a seguirla. Alina è violenta contro se stessa e le altre, ma nessuna istituzione può accoglierla in una società allo sfascio. E’ Voichita a chiedere la preghiera speciale perché anche lei non vuole e non può assumersi il rischio di cavarsela da sola con una folle. Il prete si vede costretto a fare l’atto estremo che lui conosce, ignorante, fanatico, certo, in una chiesa ottusa che ancora crede a questo, ma lo fa come estrema ratio in una situazione di totale abbandono e solitudine. E’ colpevole, certo, ma non è solo lui il male e credo proprio sia questo il messaggio di Mungiu.

          • Marta Erba scrive:

            Sono d’accordo con Annafranca: Mungiu non accusa nessuno, né offre facili chiavi di interpretazione e forse anche per questo ognuno di noi sembra essersi fatto un’idea diversa. Io credo che il significato più profondo del film si nasconda nel titolo: “oltre le colline” è la frase con cui Voichita, dopo una breve esitazione, decide di allontanare l’auto che passa per il Monastero e che rappresenta l’ultima possibilità di salvare la sua amica che sta morendo. C’è una concomitanza di fattori che porta alla morte di Alina: il fatto che lo psichiatra decide (in buona fede) che per Alina sia meglio l’ambiente tranquillo del Monastero piuttosto che l’angosciante ospedale psichiatrico, delegando di fatto la cura di Alina a persone che non sono in grado di farlo; prete e suore che decidono, sempre in buona fede e su insistenza di Voichita, di assistere Alina secondo le uniche modalità che conoscono; ma soprattutto il fatto che Alina e Voichita non rivelano a nessuno la natura della loro relazione, impedendo così a tutti quanti di comprendere le vere ragioni del comportamento – apparentemente strambo, folle o indemoniato (ma, per noi che sappiamo, chiarissimo) – di Alina. Alina, pur forte fisicamente, è la più fragile delle due ragazze , e vede in Voichita l’unica ancora di salvezza. Si scontra però con un rivale imprevedibile, e che non sa come sconfiggere: Dio. Ci prova in tutti i modi, cerca perfino di farselo alleato (prova a vivere in monastero, prega, si confessa, dona tutti i suoi averi) ma non ce la fa. Anche Voichita è divisa tra l’amore per Alina (della quale percepisce però la fragilità) e il senso di famiglia, sicurezza, appartenenza che le ha dato la sua piccola comunità (che possiamo criticare quanto vogliamo, ma è l’unica che l’ha accolta a braccia aperte: lei e altre donne in situazioni altrettanto disperate). Così in quel momento decisivo in cui potrebbe interrompere l’esorcismo folle in atto permettendo a un gruppo casuale di passanti di intervenire, sceglie invece di mandarli “oltre le colline”. Non si può certo dire che la morte di Amina sia colpa di Voichita, ma possiamo immaginare – sembra suggerire Mungiu – che il senso di colpa la attraverserà per tutta la vita.

  4. Vito Capozzo scrive:

    Viene messo in risalto questo ossessivo timor di Dio, Alina deve verificare quali tra i 464 peccati codificati in un libro sono quelli da confessare. Voichita rispondendo alle insinuazioni di una sua consorella suora dice: “Alina è meglio di tante altre donne bigotte”. Il timor di Dio, questa ossessione di un Dio che punisce anche il solo pensiero, il convento che accoglie solo ed esclusivamente persone praticanti e osservanti della religione ortodossa, queste sono le cose, che mi hanno colpito di questo film rumeno. Alla fine il rito magico dello sciamano (il prete ortodosso), non è servito per far liberare dal maligno Alina.

  5. Annafranca Geusa scrive:

    Con il raccontare un fatto di cronaca Mungiu coglie l’occasione di parlare di solitudine, della solitudine profonda di Alina e Voichita, cresciute insieme in un orfanatrofio rumeno, fattesi insieme forza e protezione per andare avanti, amandosi in una Romania post comunista che appare un luogo senza speranza.
    Alina ha trovato una famiglia ma non le basta, forse non se ne sente comunque parte, visto che poi viene presto sostituita dopo la sua partenza, e quindi va in Germania in cerca di lavoro. Ma lì è dura e la solitudine ancora di più.
    Voichita va in un monastero dove un pope e una suora diventano per lei, e per le altre solitudini, papà e mamma, barattando l’amore di Dio con il desiderio di avere una famiglia, di farne parte.
    Ma Alina ha bisogno di lei, e la raggiunge per portarla via con sé, in un amore che non ha niente di tale ma che rappresenta solo la risoluzione della sua solitudine. E quando Voichita rinuncia a lasciare la sua sicurezza, Alina non lesina il ricatto morale della sua malattia, della sua fragilità psicologica, che nessuno sa affrontare perché il male dell’animo è troppo impegnativo per chi vede il proprio mondo limitato alla propria quotidianità.
    E qui parte la denuncia di Mungiu: la solitudine non è solo nell’animo di alcune persone ma è un pesante e lungo inverno che colpisce tutti e che chiude tutti nell’indifferenza. Nessuno ha voglia di entrare nell’animo delle persone, si preferisce delegare oppure esorcizzare con la scusa del maligno e incasellare il male dell’animo nei circa 400 peccati della lista.
    Alina muore per le sevizie subite in un assurdo rito di esorcismo e il medico, seppur sconcertato dall’inutile omicidio, non ne è poi così indignato o impressionato. Alla fine, l’unica scintilla di amore rimasto è nella presa di coscienza di Voichita, che compie l’unico suo atto di ribellione liberando l’amica, rischiando la sua sicurezza e collaborando con la giustizia.
    Ma la denuncia di Mungiu lascia anche un senso di irresolutezza, tutti sono colpevoli e innocenti al tempo stesso: il pope e la suora e la loro non percezione del male fatto pensando di aver fatto solo il bene della ragazza, i medici che delegano, o s’indignano ma nella totale ignavia e più preoccupati a proteggersi da rogne, i genitori adottivi di Alina che in realtà sono mossi più da opportunismo che da una qualsiasi forma di amore, e Alina stessa che per la soddisfazione della propria solitudine non esita nella volontà di distruggere il mondo di sicurezza, seppur fittizia, dell’altra.
    E questa irresolutezza è forse il modo di Mungiu di sottolineare un mondo, un sistema senza speranza.
    Il film è bello nel delineare le personalità delle due ragazze (e meritato premio a Cannes per l’interpretazione), nella fotografia degli scarni paesaggi e dei volti veri e intensi, nei dialoghi semplici e lucidi, ma si dilunga troppo con eccessivi e sterili indugi che rendono il film noioso, soprattutto nella seconda parte.

  6. Elena Costa scrive:

    Di importanza totale, sicuramente la frase finale:”Quando finirà l’inverno?”.
    E quel vetro sporcato da una chiazza improvvisa di fango che il tergicristallo pulisce. E la risposta dell’essere umano, alla luce di questo film, è sicuramente: MAI.
    E vi ha spiegato il perchè nella trama: i peccati solo oltre 340 (questa per me una scena splendida che è valsa il film intero), elencati in un libro, non si è mai esenti da colpa o peccato (peccati reali e peccati di pensiero, peccati sempre e comunque, al punto che Alina smette di fare le stanghette), e le punizioni sono di ogni sorta: divine, umane, per fede, in buona fede, errando. Punizioni corporali o la prigione per gli umani che sbagliano, alla fine di tutto.
    Se si pensa, si fa penitenza, la nostra coscienza torta pulita come il vetro della macchina. Un film sulla fede che deve essere una scelta. Qui spesso vista come rifugio da una solitudine, da un non saper
    dove andare, da un rifuggire da situazioni scomode.
    Ricorre nel discorso delle orfane,ricorre nella monaca scappata ad un marito violento. Ma poi attenzione a ribellarsi alla fede, come fa Alina, che quindi viene legata ed imbavagliata. Solo l’amore finale è salvifico e toglie catene e bavaglio e libera, lascia senza bisogno di parole altre, libera corpo e anima, ormai felice. Anche l’anima non chiede di più e se ne va.
    Un film complesso che mi ha inizialmente lasciata perplessa, non del tutto da scartare, ma da prendere con le pinze.
    Difetto massimo del film: poteva durare 90 minuti anzichè 150, troppo ripetitivo e questo lo ha resto spesso noioso, pur salvandone un contenuto che non dice nulla di ecclatante, di nuovo.
    Mi sono piaciute alcune immagini fotografiche che mi han ricordato dei quadri di Brueghel.
    Lasciatemi questa volta chiudere con estrema trasgressiva ironia, non messa qui a caso, perchè anche la tematica sessuale ricorre nel film: il buon Marx avrebbe detto che la religione è l’oppio dei popoli e il buon Freud che una sana scopata avrebbe risparmiato tanta sofferenza!

  7. Luigi Farioli scrive:

    Voichita (Cosmina Stratan) e Alina (Cristina Flutur) hanno vissuto l’infanzia nello stesso orfanotrofio. Raggiunta la maggiore età Voichita andrà via dalla Romania e cercherà lavoro in Germania, Alina troverà la sua strada in un convento di suore ortodosse.
    La forte amicizia (e amore) che da sempre ha legato le due giovani, spingeranno Voichita a ritornare in Romania per riabbracciare Alina e per convincerla a seguirla in Germania e vivere insieme.
    Si potrebbe dire che il film di Mangiu è un film che mette in evidenza gli aspetti di una religione che non vede i bisogni dell’uomo ma li ‘guarisce’ a suo modo. Ma prima ancora che questo, “Oltre le colline” è una storia d’amore, una storia d’amore portata fino al sacrificio estremo: la morte.
    Pur di non lasciare Alina, Voichita accetterà di rinunciare alla sua vita, al suo carattere, alle sue convinzioni ed entrerà in quel convento che la considera una peccatrice indemoniata.
    Ispirato ad una storia vera, è sicuramente un film complesso, con una gran bella sceneggiatura e una altrettanto bella fotografia. I personaggi sono tutti ben caratterizzati, non solo le due protagoniste che hanno vinto entrambe il premio per la miglior attrice all’ultimo Festival di Cannes.
    Un film da vedere, nonostante le sue due ore e mezza di durata.

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