Dialoghi con… Laura Chiossone

Con grande piacere ospitiamo nella nostra rubrica Laura Chiossone, una giovane regista milanese che dal 27 giugno è nelle sale con il suo primo lungometraggio, “Tra cinque minuti in scena”.

 

Il film, prodotto da Rossofilm, racconta con grazia, tenerezza e ironia la storia di dipendenza e di intimità tra una figlia, Gianna – un’attrice di teatro – e una madre ultranovantenne, Anna, che non è più autonoma, ma che è stata una donna volitiva e dalla vita intensa. Il rapporto tra le due donne ( figlia e madre nella realtà) si intreccia con le vicende della messa in scena dello spettacolo di cui Gianna è una dei protagonisti, spettacolo che parla proprio delle difficoltà e della conflittualità del rapporto madre/figlia quando l’età sembra invertire i ruoli. La storia del film si dipana così tra fiction e realtà, e tra il palcoscenico – il luogo delle prove, il dietro le quinte – dove si scoprono i destini degli attori, e la casa delle due donne: tre scenari uniti dall’ironia, dall’amarezza e dalla evoluzione della personalità di Gianna.

 

Laura è arrivata a questo traguardo dopo una numerosa e varia produzione di cortometraggi, videoclip musicali, spot pubblicitari e documentari (il suo sito è tutto da vedere: www.laurachiossone.com), ed è crediamo giustamente orgogliosa. Le abbiamo rivolto qualche domanda.

 

Il tuo primo film è nelle sale da pochi giorni:  riesci a descriverci l’emozione che hai provato la “prima” volta che hai visto il tuo lavoro davanti a un pubblico vero?

Direi nell’ordine: terrore, gioia e commozione. Vedere il film attraverso gli occhi del pubblico ti rende spettatore di te stesso e questo può essere bellissimo o tremendo, ma sentire il pubblico ridere agli appuntamenti giusti, e soprattutto vedere le loro facce felici perché ricche di emozioni alla fine è stato veramente il premio migliore.

 

Sei soddisfatta dei giudizi della critica e del pubblico raccolti finora?

Più che soddisfatta, stupita: abbiamo ricevuto recensioni bellissime,  quasi imbarazzanti, e commenti di partecipazione sentitissima da parte del pubblico. Non era veramente nelle mie più rosee speranze ricevere un’accoglienza così alla mia opera prima.

 

Parliamo della realizzazione del film. Da dove  è nata l’idea alla base della sceneggiatura, quella del rapporto madre-figlia in un momento della vita in cui i ruoli si invertono? E come ti è venuto in mente di intrecciarla a una vicenda di “metateatro”, che perdonami l’aureo riferimento ma richiama i “soggetti” e i “personaggi” pirandelliani?

L’idea nasce dalla realtà: ho conosciuto Gianna e sua mamma e mi sono innamorata del loro rapporto, un legame di forte dipendenza, un legame tragico che però affrontavano con spirito comico. Il ribaltamento dei ruoli in sé è una tematica bellissima poi. Anche l’idea della messinscena teatrale parte da un fatto reale: Gianna fa l’attrice di teatro, quindi mi è sembrato naturale portare sul palcoscenico, come in una catarsi, la storia del legame con sua mamma. Era il modo più evidente per raccontare la sua “crisi”, la difficoltà di gestire la propria vita professionale, personale e sentimentale facendosi carico dell’assistenza di un genitore non più autonomo.


Il cast è perfetto: oltre alle – a mio parere – straordinarie interpretazioni di Gianna e Anna ( e con
che sorpresa ho scoperto che sono davvero madre e figlia, che interagiscono nella loro vera casa!), come e perché hai scelto gli altri protagonisti?

Sono tutti attori di teatro, perfetti quindi per interpretare la parte di attori teatrali appunto.

 

Non vorrei dimenticare un altro protagonista, fondamentale, del film: Milano. Forse è inutile una domanda sul tuo amore per questa città?

Una delle recensioni più belle che ho letto del film mi ha fatto piangere. Se non sbaglio diceva più o meno così: “In questo film Milano è femmina, ed è bellissima”. Noi siamo anche il luogo dove viviamo, inevitabilmente il carattere di un luogo ci segna. Una certa Milano, quella vera, non quella che hanno spacciato a basso costo nell’ultimo ventennio, è riservata ma dolce, sa essere elegante nella sua estrema semplicità, autoironica, è onesta, piena di speranza, guarda al futuro. 

 

Hai scelto di realizzare un film “indipendente”. Ci spieghi meglio cosa significa, cosa comporta e le difficoltà che ne conseguono?

Non è stata una scelta, ma l’unica chance! Sarei ben contenta di girare dei colossal su commissione! Ma non esiste un mercato abbastanza vivo per questo, bisogna tirarsi su le maniche e partire dal basso, ben venga: in cambio ho avuto tutta la libertà del mondo, i contenuti, la forma, ogni scelta è stata libera, limitata solo dalle possibilità concrete che erano comunque relative appunto a un basso budget. Ma i paletti stimolano la creatività, la stessa idea dei formati differenti nasce da un’esigenza di produzione: girare il film in due settimane. E allora il documentario che non richiede troupe, il teatro che può essere girato quasi in un unico piano sequenza e la parte cinematografica, più costruita, girata in pellicola con i tempi e i costi che questo comporta nel poco tempo a disposizione. E poi soprattutto mi sono ritrovata con un opera prima di cui sono orgogliosa, cosa che difficilmente sarebbe successa con un colossal!

 

Raccontaci della tua carriera: quando hai sentito la “vocazione” per il cinema, e come hai iniziato a realizzarla? 

Ho sempre amato il cinema come spettatrice, ma non avevo idea di cosa fosse il mestiere di regista. Da bambina volevo scrivere romanzi, in realtà, ma non mi è mai riuscito bene! Un giorno ho avuto occasione di collaborare con Luca Lucini (il regista di “Amore bugie calcetto”, “Oggi sposi”, e tante altre commedie, nonché coproduttore del mio film), e ho capito cosa voleva dire fare regia: avere una visione e coordinare diversi livelli (immagine, suono, parola) in un’unica direzione. Ho pensato di aver trovato la mia strada, e mi sono messa alla prova con dei cortometraggi autoprodotti, per vedere se effettivamente avevo qualcosa da dire. Contenta del risultato ho cominciato la gavetta dal basso: produzione, aiuto regia, fino ad arrivare alla regia professionale verso il 2003. Ai tempi c’era un bel mercato vivace per i videoclip, una bellissima palestra per l’immaginario; da lì poi la pubblicità, che contrariamente a quanto uno possa pensare d’istinto può essere anch’essa in alcuni casi più fortunati una forma di espressione creativa; poi i documentari, per affrontare narrazioni più consistenti anche nella durata.

 

Sei contenta del tuo percorso finora?

Sì, ho fatto tantissimo, ho imparato molto, mi sono divertita, ma soprattutto sono contenta ora che finalmente è arrivato il primo film, e un film così particolare, così felice.

 

Hai già in mente come e dove ti muoverai in futuro?

No, non mi  è chiaro. Sono molto preoccupata della stasi economica  e culturale generale, c’è poco fermento, poche idee, poco coraggio. Ogni tanto penso che potrei andare già in pensione (ma ho 39 anni e sarebbe prestino….)! Ma questo lavoro è una droga, non si riesce a farne a meno. Quindi in realtà sono molto concentrata per cercare di trovare la prossima bella storia da raccontare.

 

Come ultima domanda, la stessa che facciamo sempre ai nostri intervistati: quali sono i tuoi tre film preferiti, quelli che in qualche modo di hanno cambiato la vita?

Provo a rispondere, ma probabilmente se mi rifai la domanda tra una settimana ti do altri tre titoli!

“Cuore Selvaggio” di David Lynch

“Il Cameraman e l’assassino” di Remy Belvaux, Andrè Bonzel e Benoit Poelvoorde.

“La soufriere” di Werner Herzog.

 

Per saperne ancora di più: www.tracinqueminutinscena.it

 


 

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