Troppo vicini alle proprie paure e ai propri desideri

Esce in sala giovedì 13 aprile 2017 l’ultimo film di Claudio Casazza: “Un altro me“, girato all’interno di un carcere insieme ad un gruppo di detenuti condannati per violenze sessuali.

 

Presentato in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre 2016, e premiato dal pubblico sia al Festival dei Popoli di Firenze che al Mese del Documentario, il lavoro di Casazza è il risultato di un anno passato nella Casa di reclusione di Bollate, a Milano, al seguito dell’Unità di trattamento intensificato del team di criminologi guidato da Paolo Giulini. Impegnati in un progetto sperimentale di trattamento dei colpevoli di reati sessuali, cosiddetti sex offenders, i terapeuti lavorano per ridurre la possibilità che i detenuti, una volta scontata la propria pena, tornino a commettere lo stesso tipo di reato.


 

Il film, prodotto da Graffiti Doc con il sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Piemonte Doc Film Fund e distribuito da Lab 80 film, è un viaggio negli spazi fisici e nelle dinamiche mentali in cui vivono i detenuti protagonisti: tra loro Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino e Enrique. Tutti hanno esercitato violenza contro una donna e sono stati riconosciuti colpevoli. Cosa pensano del proprio reato? Quali sono gli alibi culturali con cui lo spiegano? Come cercano di deresponsabilizzarsi e come immaginano di comportarsi una volta usciti dal carcere?
I detenuti si raccontano, senza sconti, e il team di Giulini li guida, li ascolta, si scontra con le loro resistenze, discute al suo interno su come procedere con il lavoro.

 

Sentiamo la bella recensione di Francesco Rizzo:
 
“L’insegnante di disegno non è convinta: “E la sfumatura dal nero al grigio? Non lo tira più chiaro, quello lì”. L’allievo replica sicuro: “Chi l’ha detto?”. Nel carcere di Bollate, un gruppo di detenuti per reati sessuali partecipa a un laboratorio artistico: il compito è far emergere uno spazio luminoso su un foglio spalmato di carboncino nero. “Dal nero al grigio” e forse il bianco, come il percorso raccontato in Un altro me, documentario che ribalta i rituali da talk show sul tema della violenza sulle donne, generalmente analizzato dal punto di vista delle donne stesse.
Il regista Claudio Casazza si domanda invece chi siano gli uomini violenti: come ricostruiscono ciò che hanno fatto? Sanno riflettere su loro stessi e sulle conseguenze dei loro gesti? Come guardano al futuro?
 
Casazza entra nel carcere di Bollate, dove è attiva una unità di trattamento intensificato, primo esperimento in Italia di prevenzione della recidiva di reati sessuali. E descrive, con discrezione ma senza paura delle parole, il percorso di terapia affrontato da un gruppo di uomini, in cella per abusi o stupri, fra sedute di gruppo con gli psicologi, colloqui individuali, incontri di rieducazione alla sessualità. E laboratori artistici, in cui viene chiesto ai detenuti di ritrarre loro stessi: “Osservarsi dentro questo piccolo specchio che avete, per vedersi come si è, perché se partiamo da noi stessi è poi più facile guardare il mondo”, spiega – significativamente – la responsabile. Casazza lascia sfumati i volti dei detenuti, in un comprensibile rispetto della privacy trasformato in metafora di personaggi fluidi, che cercano di assumere una nuova identità.

 
E inquadra il penitenziario quasi solo attraverso dettagli – corridoi, chiavistelli, porzioni di cortili, oggetti costruiti dai carcerati – trasmettendo la sensazione di immobilità del tempo, in contrasto con il tentativo di chi è dentro di cambiare e muoversi verso una vita normale. Per chi ci riesce: il documentario non nasconde la possibilità di fallire. Ma ci accompagna all’interno di confessioni potenti, frutto anche del confronto fra diversi detenuti in terapia: autonarrazioni giustificatorie, cinquantenni che ammettono di essere più disturbati dall’aver “subito il controllo” da parte di una minorenne di cui si sono innamorati che dal reato commesso, uomini che raccontano del loro “bisogno di possesso e amministrazione” dentro le relazioni o che quantificano il numero di rapporti sessuali avuti nella vita come “il numero che mi serviva”.
Le parole sono al centro di Un altro me e il montaggio non è solo delle immagini, è anche delle conversazioni nel corso della terapia, in modo che il silenzio successivo sappia sottolinearne i passaggi più eloquenti, le conclusioni che richiedono una riflessione. Alla fine, sarà una donna vittima di violenza a incontrare alcuni detenuti, in un confronto di cui lo schermo sa restituire tutto il peso emotivo. Ma a colpire è soprattutto la rapida descrizione di un breve permesso concesso a un detenuto in una Milano svuotata dall’estate: la macchina da presa pedina l’uomo, rigorosamente di spalle, riuscendo bene a trasmettere il disagio di chi non è pronto ad affrontare il mondo esterno. Ammetterà, poco dopo, di aver avuto paura di essere visto insieme a ragazzine della stessa età della sua vittima. “Ero troppo vicino”. In tre parole, la paura di se stessi, il desiderio, la vera pena da scontare.”

 

Ha detto il regista, Claudio Casazza:
 
“Credo che il documentario non rappresenti solo un dialogo tra detenuti e terapeuti, ma è costantemente un dialogo con lo spettatore perché ciascuno possa farsi delle domande, avere il proprio percorso di consapevolezza e trarne le considerazioni che vuole. Pur non potendo evitare di trattare realtà dolorose, ho voluto togliere qualsiasi dettaglio voyeuristico, per costruire un territorio aperto nel quale ciascuno possa riflettere su un reato che sebbene sembri sotto gli occhi di tutti, rimane per lo più sommerso e troppo poco compreso. Ho anche scelto di non sapere che tipo di reati avevano commesso i detenuti, volevo entrare in carcere senza pregiudizi e volevo che questo atteggiamento si riflettesse nel film.”.

 

E come sempre terminiamo con il trailer ufficiale !!

 


 

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